RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI” – LIBRO III
Terzo incontro del nostro Classico del 2023.
La visita alla mostra di “Guerra e pace” continua, anche se qualche lettrice è rimasta indietro alle sale precedenti, come la sottoscritta e un'altra partecipante. Altre hanno cercato di attirarle verso le nuove sale, come qualcuna che ride della presa in giro di Napoleone (ora giallo, grasso e con l’aspetto di un quarantenne scapolo) o che chiama Mosca una “città calviniana”, in quanto viene descritta da Tolstoj come mitica, opulenta irraggiungibile; una madre per i russi e un’affascinante donna orientale per tutti gli altri.
La suspence sulla sorte del principe Andrej potrebbe essere un buon motivo per riprendere la lettura: sarà morto davvero? Questo libro ha lasciato qualcuno con qualche dubbio, oltre che con la sorpresa di averlo “scavallato” senza così troppa fatica. Le numerose parti sulla guerra hanno richiesto più attenzione rispetto a quelle romanzate, però la vicenda è risultata comunque scorrevole. Secondo una partecipante, a costituire il valore aggiunto di “Guerra e pace” sono tutti gli intermezzi e le digressioni di Tolstoj (come la riflessione sul secondo paradosso di Zenone), mentre un'altra ne ha apprezzato l’ironia sottile e intelligente. C'è chi ha osservato come i generali e i comandanti formulino teorie e progettino i loro piani in tutti i dettagli, ma poi vengano smontati in un lampo per pura fatalità. Ed è proprio questa fatalità che si collega alla provvidenza manzoniana de “I promessi sposi”: il libero arbitrio non esiste; le decisioni delle persone sono connesse a tutto il corso della storia e sono predeterminate da un tempo interno.
Sarà davvero così? Non ci resta che avviarci verso l’ultima, risolutiva, sala…
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI”
Si percepisce proprio che “Azami” di Aki Shimazaki sia un “embrione di libro”.
“Azami” è il primo titolo di una pentalogia che, in ogni volume, affronta varie tematiche dal punto di vista di un personaggio diverso: dall’omosessualità e i tabù della società alle discriminazioni razziali, passando per la reputazione acquisita (e da mantenere) grazie alla propria professione e l’assenza di rapporti sessuali in una coppia sposata da tempo, considerato proprio in “Azami”. Scriviamo “considerato” e non “approfondito” perché alla maggior parte dei partecipanti il racconto lungo è sembrato incompiuto. Alcuni non sapevano che vi fosse un seguito e sono rimasti un po’ delusi. Per qualcuna è grevio, senza sale, mentre qualcun altro l’ha giudicato poco più di un harmony. Nonostante l’abbia trovato un po’ insipido, un partecipante ha comunque intravisto qualcosa di puro che l’ha portato a leggere anche i titoli successivi. Analogamente ha fatto un'altra partecipante, alla ricerca di qualche risposta in più su queste storie destinate e ricche di simboli (anch’essi, come i fiori, per lo più accennati). Secondo alcuni, “Azami” è “poco giapponese” perché abbastanza indefinito e trasponibile in altre realtà. Una di noi ha usato l’espressione “di maniera”, come se qualcuno avesse voluto scrivere alla maniera di un giapponese, senza esserlo, raggiungendo un risultato banale (la scrittrice ha origini nipponiche ma è canadese). Altri partecipanti invece hanno sentito sia tra i personaggi sia tra l’opera e i lettori quella distanza e asetticità che è tipica – o, almeno, lo sembra a noi occidentali – delle interazioni con persone giapponesi. C'è chi infatti ha provato frustrazione perché le sembrava di andare a cercare un sentimento che, alla fine, non ha trovato.
Secondo una partecipante, “Azami” è attuale in quanto descrive momenti di vita comuni a tante persone. Per qualcuna rappresenta una brevissima storia d’amore passionale, mentre per un'altra la passione non c’è: i rapporti sono troppo inquadrati, descritti con frasi troppo corte. Invece questo aspetto, assieme ad altri stilistici, hanno contribuito all’ammirazione per la scrittrice da parte di un partecipante, che vorrebbe essere trattato senza giudizio come lei tratta i suoi personaggi.
Questa storia, così veloce nei tempi e nelle relazioni, ad alcuni non ha lasciato nulla ed è un libro già dimenticato, fine a sé stesso. Altri hanno però comunque letto tutta la raccolta perché la curiosità di scoprire il perché *non* condividano qualcosa li porta ad approfondire, a scavare, a leggere ancora. E, allora, non possiamo dire che sia stata una lettura vana.
Per quanto le storie si intreccino tra loro attraverso alcuni personaggi che a volte agiscono come protagonisti e altre come comparse, personalmente non definirei questo libro un romanzo.
In generale, per me siamo lontani dai livelli di “Accabadora”, ma non so se il confronto valga perché quest'ultimo, appunto, È un romanzo.
Le tematiche comuni della maggior parte degli scritti in questa raccolta sono la malattia, la frustrazione e l'adattamento a eventi fuori dal nostro controllo, sotto varie forme e aspetti. Dei dodici racconti, mi hanno colpito particolarmente il primo, “Espressione intraducibile” (sicuramente il più personale per Michela Murgia), e l'ultimo, “Cambio di stagione” (un rito che Murgia ha già compiuto nel suo cinquantesimo compleanno).
“Quando anche l'ultimo invitato se ne era andato col suo bottino di stoffa, si sedette sotto un albero e pianse in silenzio tra le ombre dei rami sempre più distese, mentre il vento calante lasciava i vestiti rigidi sulle grucce, pelli di rettile, mute del serpente che era stata sua sorella, velenosa e calda, piena di spire.” – Pag. 136
Ho sorriso per il cambio di prospettiva voluto in “Stato di servizio”, dove Murgia si descrive come “pazza” dall'esterno, attraverso il punto di vista di una governante di un colonnello dell'esercito, richiamando un episodio realmente accaduto durante la pandemia.
Gli altri racconti mi hanno lasciato per lo più indifferente e alcuni li ho trovati poco credibili o discutibili.
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI” – LIBRO II
Secondo incontro del nostro Classico del 2023.
L’esibizione continua, e Tolstoj mostra ancora una volta la sua grande capacità di orchestrare tantissimi personaggi. Ma non solo: il modo in cui presenta i vari temi dei diversi capitoli del Libro II invoglia i lettori ad approfondirli, anche se qualcuna non vi trova molto di innovativo rispetto ad “Anna Karenina”, anzi, gli stessi argomenti rischiano di rendere il romanzo un po’ ripetitivo e noioso. Qualcun altro si chiede se lo stile didascalico del libro sia specifico di Tolstoj o anche di altri scrittori russi. Per noi la seconda, però la caratterizzazione dei personaggi da parte di Tolstoj è una sua peculiarità che li rende davvero realistici e riconoscibili grazie a volte a un singolo dettaglio.
Nel Libro II comunque iniziano a prevalere i discorsi sociali, le parti più interessanti, e si intrecciano sempre più le relazioni tra i membri delle varie famiglie, al punto che una partecipante definisce il Libro II come un gran feilleuton, e menziona i quadri di Chagall per collegarsi alle storie d'amore volanti. Non abbiamo più dubbi che al centro del romanzo vi sia il personaggio di Pierre: un po’ smarrito e alla ricerca di sé stesso, un po’ sofferto e accidioso, ma pure un po’ deludente per via delle sue scelte sbagliate. Eppure Pierre, che non conosce le regole dei nobili eppure entra nel salotto di una famiglia imbalsamata, che si distingue sia da Andrej Bolkonskij sia da Nikolaj Rostov perché non è né un militarista né innamorato della figura dell’imperatore, incarna la ricerca dell’uomo nuovo e moderno. Ed è straordinario come, allo stesso tempo, Tolstoj sia in grado di approfondire così dettagliatamente anche le figure femminili di “Guerra e pace” e la donna dell’Ottocento in generale.
Curiosi di sapere come evolveranno ancora i protagonisti e se riusciranno in qualche maniera a riscattarsi, ci avviamo così verso il terzo libro: appuntamento al 22 settembre.
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI”
“L’incredibile viaggio delle piante” è un avventuroso saggio scritto da Stefano Mancuso, professore di arboricoltura generale e etologia vegetale all’Università di Firenze. Con le sue storie che sembrano quasi favole, con morali annesse, Mancuso ci ha portato in giro per il mondo a visitare regioni impensabili e ogni volta diverse. Una partecipante è stata riportata con la mente a Palermo, a visitare l’orto botanico più grande d’Italia.
Grazie al linguaggio e alle storie amichevoli, abbiamo ammirato la cortesia delle piante, che convivono con noi gentili. Mancuso ha trovato il modo di descriverle quasi fossero delle persone, rendendole in un certo senso ancora più vive. Per qualcuna, il libro è delizioso; per un altro, tutti i saggi dovrebbero essere così informativi e divertenti, sorprendendo anche lettori e lettrici forti che non avrebbero mai pensato che un testo di divulgazione scientifica potesse essere così avvincente. È che Stefano Mancuso scrive proprio bene; Italo Calvino (la cui madre è stata la prima donna in Italia a ottenere una cattedra universitaria in botanica! – https://opac.provincia.brescia.it/opac/detail/view/test:catalog:563190) probabilmente aggiungerebbe che il suo stile cura l’attenzione dell’orecchio di chi ascolta e non si concentra solo sulla voce di chi parla.
Eppure alcuni partecipanti hanno comunque avvertito tra le righe qualche sensazione negativa: frustrazione e forse anche rancore, da parte dell’autore, per il mancato prestigio attribuito dalla società al mondo vegetale, soprattutto se paragonato invece all’ammirazione e al rispetto mostrati per il mondo animale. A lungo andare, con uno stile troppo regnista, come l’ha definito un partecipante, la narrazione potrebbe diventare un po’ irritante.
Sicuramente tra gli intenti dell’autore c’era quello comunque di responsabilizzare il pubblico lettore su un patrimonio vitale da preservare, perché la distruzione delle piante porterebbe soltanto alla distruzione dell’umanità. L’impatto dell’uomo sulla natura è innegabile, non solo per i picchi di isotopi di carbonio rilevati in un’isola a 400 miglia a sud della Nuova Zelanda dopo i test nucleari nell’emisfero settentrionale negli anni Cinquanta. Siamo arrivati a un punto di non ritorno, dove c’è maggiore sensibilità sull’argomento ma all’atto pratico non si sta facendo abbastanza.
Ciò su cui siamo stati tutti d’accordo è che le illustrazioni dell’edizione cartacea siano meravigliose, ma si è sentita la mancanza delle fotografie degli alberi e dei fiori narrati. Un espediente dell’autore per invitarci ad approfondire? Potrebbe avere giustamente piantato qualche seme nella speranza di accrescere la pianta metaforica forse più importante di tutte: la nostra curiosità. A volte, ci vuole solo un fiore (https://www.youtube.com/watch?v=e1ScICZ8aXw).
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI”
La città e la condivisione.1. Fausta
Al crepuscolo di un venerdì di giugno, Fausta mi accoglie con la porta socchiusa. Un brusio di molteplici voci proviene dal foro, dove alcune sedie rosse sono disposte a cerchio e un gruppo di persone sta discutendo “Le città invisibili” di Italo Calvino.
Sembra esserci ordine nelle esposizioni anche se non c’è uniformità nelle opinioni: sono frammentate come i racconti stessi del libro, cosa che non ha convinto affatto alcune partecipanti. Non c’è nemmeno una linearità: da un lato, come osserva qualcuno, ciò potrebbe penalizzare l’opera, perché l’assenza di un filo conduttore annoia; dall’altro lato, forse sarebbe più corretto affermare che non c’è un’unica linea che colleghi il principio e la fine. La struttura combinatoria de “Le città invisibili” offre tante strade verso ambientazioni a volte surreali che insinuano il dubbio di apprezzare cosa si stia leggendo. In quest’opera, che un partecipante considera un esperimento legato al periodo degli anni Sessanta e al gruppo dell’Oulipo, la memoria viene messa a dura prova dalla miriade di particolari e dettagli specifici di ogni pagina, dove ogni parola genera suggestioni. “Le città invisibili” non andrebbe letto tutto d’un fiato in pochi giorni ma andrebbe degustato. Una prima lettura potrebbe non essere sufficiente a cogliere tutta la forza del libro.
In ogni città ognuno può trovare qualcosa di sé. E forse il segreto è proprio questo: a meno di non attribuire ai racconti un proprio significato personale, il libro rischia di rimanere sfumato, una mappa oscura. Le città sono come degli specchi: se uno riflette bene su ciò che è riflesso, rileva qualcosa. Per riconoscere gli elementi di realtà trasfigurati in un mondo che apparentemente è solo onirico, potrebbe servire fare dei disegni o usare altre chiavi di lettura come prestare attenzione al linguaggio dei gesti e ai segni.
“Le città invisibili” è un caleidoscopio, dove la forma delle città ha l’impronta e i segni dell’umanità. E così come sono le persone che fondano e fanno evolvere le città, in maniera analoga Italo Calvino richiede a ogni lettore di aggiungere il proprio tassello di legno per generare e completare la sua opera, che perciò non è mai compiuta e finita, bensì continua e continuerà a rinnovarsi e a essere immaginifica, suscitando la creazione di nuove immagini nei prossimi lettori. Un’opera in cui potranno sempre distinguersi “l'Olinda ventura e quelle che cresceranno in seguito”, in un’onda di andare e venire di oggetti e idee più moderni e ambientazioni più antiche.
La discussione giunge al termine e il mio sguardo scorre sugli scaffali. Di Fausta questi sono le vie, dove i suoi peculiari abitanti, volumi apparentemente inermi e silenziosi, sono in grado di scatenare reazioni sorprendenti nei viaggiatori che transitano di lì. Tra queste vi è sicuro la sensazione di sentirsi accomunati gli uni agli altri, mentre visitano a distanza di giorni, mesi o anni, le stesse pagine. Attraverso le sue guide, Fausta mostra ai suoi visitatori infinite possibilità; un punto di partenza verso l’altro al di fuori di sé che inevitabilmente riconduce al sé, mentre si cerca di scioglierne, da soli o in condivisione, i nodi che perseveranno a formarsi.
Conoscevo poco o nulla di Joyce Lussu, partigiana e scrittrice italiana del Novecento, colei che si interessava della politica “di base e dal basso, pratica, concreta, effettiva. La più difficile. Meno visibile, meno prestigiosa, e, aggiungiamo, non remunerata”. La politica più autentica, probabilmente.
Determinata, anticonformista, riflessiva ma pronta ad agire, e a trovare nella scrittura e nella traduzione “un mestiere insolito”, complementare a quello di suo marito, Emilio Lussu, anch'egli scrittore, militare e politico.
Da Joyce “si irradiano dei campi di energia e di attività, che hanno poi documentazione e testimonianza nella scrittura: la questione femminile, il diverso approccio alla storia, la ricerca di modelli alternativi di sviluppo, la memoria personale e familiare, l'antifascismo e le lotte di liberazione, l'ecologismo, l'antimilitarismo, la poesia come momento 'naturale' della vita di ognuno”, ha scritto Gigliola Sulis su di lei. Immortale come una sua poesia, “non potrà sparire dal mondo / anche dopo il gran tuffo nell'aldilà / continuerà a svolazzarvi attorno / travestita da lucciola o da farfalla”, con “la testa piena di grandi parole come: / dovere, lavoro, ideali, giustizia e libertà”.
Il voto medio della recensione è perché lo stile di scrittura e il ritmo della narrazione della biografia non mi hanno coinvolto molto. Però ringrazio molto l'autrice per aver raccontato la vita e la personalità di questa persona straordinaria.
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI”
“Educazione europea”, romanzo d’esordio nel 1956 di Romain Gary, fu inizialmente edito in Italia da Mondadori nel 1967 con il titolo “Formiche a Stalingrado”, e poi riproposto in una nuova versione da Neri Pozza nel 2006 (che suggeriamo caldamente).
È un libro che si aggiunge ai tanti altri titoli ormai classici che parlano di resistenza e, forse per questo, non ha sorpreso tanti partecipanti del gruppo di lettura, come chi si è un po’ annoiato o chi l’ha abbandonato perché stanco di affrontare tematiche già trattate. I personaggi sono poco caratterizzati e ciò, unito alla difficoltà dei nomi polacchi, non ha fatto molto empatizzare con loro. Eppure la storia è risultata abbastanza scorrevole, nonostante sia un po’ dispersiva e inframmezzata da dei racconti interni, considerati molto poetici, narrati dal personaggio più idealista, lo studente Dobrowski.
“Educazione europea” implicitamente indaga la questione di cosa sia Bene e cosa sia Male, lasciando al lettore la possibilità di dare una risposta definitiva. Vi sono due principali modi di resistere: difendendosi in battaglia oppure collaborando e accettando compromessi. Praticità contro idealismo (o anche utopia). Gary non si limita a questi due poli estremi e ne tratteggia diverse combinazioni, ponendone alcune in scontro diretto, come nel momento più alto del libro per una partecipante: il confronto tra un padre e un figlio che hanno preso posizioni opposte pur avendo lo stesso carattere. Vi sono poi anche aneddoti di abitudine alle cose che succedono in guerra, quasi delle contronarrazioni. La guerra sarebbe potuta finire prima se tutte le persone fossero intervenute combattendo, ha dichiarato un partecipante, perché aspettare che intervenga qualcuno per reagire a propria volta non è sufficiente. Il monito dello scrittore francese è che non esiste salvezza per chi non sceglie la parte del bene: chi cerca il compromesso prima o poi viene travolto. Scegliere è un dovere morale.
Come si fa a scegliere? Anzi, come si può crescere comprendendo quali principi considerare importanti, irrinunciabili, guide per le nostre decisioni? Decisioni tra l’altro da prendere avendo come obiettivi altri valori, altri diritti fondamentali. In guerra non perde chi non si fa prendere dalla barbarie o dall’egoismo di arricchirsi, e in questo la cultura aiuta: ce lo mostrano tutti i personaggi del libro nei momenti in cui cercano di estraniarsi dalla realtà. E vale la pena riprendere l’etimologia della parola “cultura”, il verbo latino “colĕre”, ossia “coltivare”: nei tempi di pace ognuno può formarsi una cultura attraverso i libri, l’arte, la musica o i dialoghi con altre persone, costruendosi degli strumenti, preparandosi ad affrontare ciò che sarà o a tentare di impedire che la storia si ripeta.
È forse questo il messaggio più importante di questo romanzo, che non aggiungerà molto a quanto già presente in letteratura, però con la valorizzazione della cultura contribuisce a ricordarci di essere patriottici e non nazionalisti, invitando tutti i popoli, attraverso una poesia, a essere fratelli. Non solo in Europa, ormai, bensì in tutto il mondo.
La trama in sé non mi è dispiaciuta, specialmente la parte finale che approfondiva lo scoppio della Rivoluzione Francese, e anche l'idea del racconto dentro la storia. Lo stile dell'autore tuttavia non mi ha fatto entusiasmare, soprattutto per la quasi totale assenza di descrizioni nella storia del presente (erano quasi tutti dialoghi in forma di botta e risposta) e perché i personaggi non sono stati troppo approfonditi, secondo me, salvo Elisabeth, la sorella del re di Francia.
Alla fine sono rimasta un po' come Tina, la protagonista della storia del presente, perché volevo sapere qualcosa in più sul futuro di Marie e Jakob.
Del mio primo giorno in Giappone, quel 7 ottobre 2019, ricordo la sensazione costante di sentirmi disorientata da miriadi di insegne luminose, da ideogrammi per me senza significato, e dalle vie senza numeri civici ma con i nomi agli edifici, ovviamente non in ordine alfabetico. Tra la perdita dell'orientamento e il riconoscere solo le scritte in inglese, c'erano la meraviglia e lo stupore di quello che è davvero, per noi occidentali, un altro mondo. Seguendo il bianconiglio della ricerca, ero diventata “Alice in Japanland”.
Leggere questo breve saggio di Lafcadio Hearn mi ha riportato esattamente lì, a Chiyoda, a Kanda e ai primi templi che avevo visitato, timorosa di compiere azioni o di dire qualcosa di inappropriato, mentre iniziavo a conoscere ed esperire la cultura e le convenzioni nipponiche.
Rispetto a Hearn sono stata molto più avvantaggiata, potendo contare di più sul fatto che la gente conoscesse l'inglese, su una connessione a Internet e, soprattutto, su Google Maps (che addirittura nella capitale in metropolitana mi indicava in quale vagone mi sarebbe convenuto salire, in base ai cambi che avrei dovuto fare successivamente) e Google Traduttore (con cui, inquadrando quei caratteri per me indecifrabili, riuscivo ad avere almeno una vaga idea di cosa rappresentassero).
Però, in comune a Hearn, ho potuto notare anche io che “oggi, in queste strade esotiche, il vecchio e il nuovo si amalgano così bene che l'uno sembra dar manforte all'altro” (pag. 22); ho potuto riportare alla mente “lontanissimi ricordi di libri illustrati” (pag. 33); chiedere, sui buddisti, “perché battono le mani tre volte prima di pregare?” (pag. 37), e apprendere che nella preghiera l'anima si sveglia dal sogno di un mondo di infelicità.
Nelle parole di Lafcadio Hearn e nelle "semispeculazioni" di Ottavio Fatica in appendice mi sono specchiata, riscoprendo dettagli che avevo dimenticato o che non avevo più osservato: dovrò andare a riprendere il mio taccuino di viaggio.
Qual è la probabilità che Edgar Allan Poe conoscesse le principali nozioni della stessa teoria della probabilità? Come il concetto del caos deterministico potrebbe avere condizionato il pensiero di Paul Valéry o di Carlo Emilio Gadda? Quale effetto potrebbe avere avuto il passaggio dalla meccanica classica a quella quantistica sulla scrittura di Robert Musil o Daniele Del Giudice?
Dopo l’invito alla meraviglia di Ian McEwan, ecco finalmente un altro saggio per approfondire il rapporto tra letteratura e scienza, in particolare quella branca della matematica che si occupa di studiare i problemi di definizione e misurazione dell’incertezza. A scrivere “L’universo letterario del probabile”, edito da Bollati Boringhieri, è la scrittrice Francesca Romana Capone, cultrice della materia in Letterature comparate presso l’Università di Torino, dove ha conseguito anche un dottorato di ricerca in culture classiche e moderne, in seguito a una laurea in storia dell’arte e un master in comunicazione della scienza.
Letteratura e probabilità propongono entrambe modelli per indagare la realtà, per “formalizzare un insieme di esperienze comuni” affondando in un “patrimonio di conoscenze collettive”. Qualcosa che proprio in probabilità potremmo chiamare universo: tutti i possibili eventi. Ma, definendo qualcosa come realizzabile, ecco che si va a escludere qualcos’altro: a ciò che non può avvenire si associa una probabilità pari a zero. Così è stata stuzzicata la fantasia di quegli autori che si sono sempre mossi in un “quadro deterministico”, come Arthur Conan Doyle guidato dal principio di deduzione “nello spazio che si apre tra impossibilità e improbabilità”.
Ciò che è sensatamente prevedibile potrebbe avere delle cause ben delineate, seguire un ordine. Nella probabilità il concetto di ordine è fondamentale, e così nel linguaggio e nella letteratura, non solo per distinguere casualità da causalità. Paul Valéry affermava che “è la capacità di immaginare un ordine possibile che ci rende umani poiché ci consente di orientarci nella realtà. Il calcolo delle probabilità […] è allora il capolavoro dell’intelletto umano.” Se la nostra vita è una probabilità, scrive Francesca Romana Capone, qual è la probabilità del mondo esterno?
La probabilità affascina i letterati, li invita a sfruttarla per farsi “strada nei meandri di un mondo dominato dal caos”. Uno scrittore è un “testimone privilegiato degli sviluppi della scienza […] e un veicolo del senso comune come voce pubblica di un pensiero più ampiamente condiviso”. Questa strada però ha anche un altro verso di percorrenza, e così Francesca Romana Capone parla di Bruno de Finetti, statistico che cerca “nel testo narrativo o teatrale le immagini utili a illustrare le proprie idee”, per esempio nelle opere di Luigi Pirandello. Persone di lettere e di scienza che cercano un punto di incontro, un’unione.
Quando, nel Novecento, si affermano la relatività einsteiniana e il principio di indeterminazione, ecco che autori come Robert Musil o Hermann Broch non si fanno trovare impreparati. Il protagonista de “L’uomo senza qualità” di Musil, matematico così come il personaggio de “L’incognita” di Broch, incarna “l’apertura al potenziale, la ricchezza di un’esistenza persa nelle infinite possibilità che si dischiudono in un mondo essenzialmente indeterministico”, dove si è persa la consequenzialità logica.
“L’universo letterario del probabile” ripercorre poi i decenni più recenti, evidenziando però quanto scritto da Daniele Del Giudice e Ian McEwan e affrontando le difficoltà nell’uso e nella comprensione della teoria della probabilità, come nel celebre problema di Monty Hall.
Secondo Francesca Romana Capone, nonostante la “intrinseca difficoltà di rappresentazione letteraria” del mondo indeterministico, la letteratura “ha la possibilità di mettere in scena i nodi filosofici e gnoseologici del dibattito scientifico […], di appropriarsi di idee, concetti o anche semplici parole, ma quando si confronta con le complesse caratteristiche del modello scientifico, ha la necessità di assumere un atteggiamento consapevole, pena l’inconsistenza dell’operazione di intersezione”.
I rischi che si corrono in questa divulgazione consapevole, sottolinea Francesca Romana Capone, sono da entrambe le parti. Da un lato, la letteratura deve stare attenta a non “limitarsi agli aspetti più spettacolari ed esotici dei risultati scientifici, tenendo lontano il grande pubblico e, anche, gli umanisti da una riflessione più profonda sulle problematiche sollevate dalle teorie, dalle scoperte, dalle nuove tecnologie”. Dall’altro, “i lettori non hanno più accesso alla conoscenza scientifica di prima mano e possono solo cogliere ciò che delle idee trapassa nel vivere quotidiano”, perciò la scienza non deve perdere il contatto con il mondo o porsi come evento indipendente.
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI”
“La strada” di Cormac McCarthy si è meritato il premio onorario di “libro più miserabile” che abbiamo letto finora in questi sei anni. Qualcuna l’ha definito un romanzo funesto, portatore di grandi dolori. Secondo un'altra partecipante è siderale, ma non nell’essere privo di emozioni, quanto più nel senso di agghiacciante. È infatti un freddo che angoscia e si fa pesante e che in questa sua bruttura si rivela bello. E questo perché, nonostante le sue frasi secche e crude, “La strada” ci ha comunque dato tantissimi contenuti profondi su cui riflettere, affilati come stalattiti di ghiaccio.
“La strada” offre diverse contrapposizioni. La realtà a cui siamo abituati è distrutta, grigia e plumbea; i colori sono stati scordati ed emergono solo nei sogni dell’uomo. La relazione principale che viene presentata, quella tra l’uomo e il bambino, risulta straziante e allo stesso tempo amorevole. Qualcuno ha sottolineato come l’uomo rappresenti il passato, sulle cui spalle vi sono tutte le problematiche umane da espiare, mentre il bambino incarni il futuro e la coscienza: di sé, dell’uomo, del lettore, di tutti. In questo romanzo indefinito e per questo universale non vi sono nomi, né di città né di persone, e sono scarse anche le descrizioni fisiche. Fa eccezione un unico personaggio, il vecchio Ely: un profeta (forse Elia, che nella Bibbia era capace di far discendere “il fuoco dal cielo“?) o un alieno, una creatura soprannaturale “in viaggio da sempre”? Questo “sempre” ci aiuta a guardare dall’alto tutto, ci riporta all’essenza data dai quattro elementi principali: aria, acqua, terra e soprattutto fuoco. Facendoci pensare a irreversibili conseguenze negative dei fatti dei nostri giorni, inizialmente l’ambientazione post-apocalittica colpisce, ma in verità è un pretesto: ciò che importa sono solo le scelte e azioni che si trovano a dover decidere e compiere l’uomo e il bambino. Citando Kant (“Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”), un partecipante ha affermato che McCarthy vuole proprio parlare della legge morale.
Diversi episodi nel libro potrebbero essere presi a esempio, però il più eclatante è quello del ladro, verso la fine. Avendo subito un torto, l’uomo applica la legge del taglione, mostrando una cattiveria non necessaria. Ma come si fa a non diventare brutali in un mondo distrutto? Tali istinti sono insiti nell’essere umano, e riemergono in scenari del genere più bestiali e contrastanti che mai, tra tenerezza e crudeltà, tra protezione e vendetta. Da dove nasce il fatto che il bambino vuole salvare il ladro? Deriva dal padre e dai principi che gli ha trasmesso, principi che si discostano poi dalle sue azioni, provocando i silenzi del bambino. “La strada” è un romanzo sulla paternità, sul percorso di accompagnare i figli lungo la (loro) strada e sul prepararli, sul prepararsi, al distacco inevitabile.
Il “portare il fuoco” è il simbolo principale. Cosa voleva dire McCarthy con quest’espressione? Il fuoco ispira un senso di protezione, un mezzo con cui difendersi; è ciò che ci ha permesso di avere calore e luce, fin da quando nell’antichità l’essere umano ha imparato a domarlo, differenziandosi sempre di più dagli animali. Per questo potrebbe rappresentare la nostra natura umana, da custodire e tramandare. Il fuoco indica la speranza, la cui scintilla sta nella riproduzione e nella discendenza, mentre i ceppi per mantenerlo acceso sono gli insegnamenti tramandati e infissi nella memoria. All’inizio della storia l’uomo dice di non dimenticare suo padre, e alla fine il bambino dice di non dimenticare lui. “La strada” è generazionale e ciclico, come la storia. Perché, come diceva Maurice Blanchot, “L’uomo è l'indistruttibile che può essere infinitamente distrutto”. Ciò che lo fa andare avanti è a volte solo una piccola scintilla, un’idea, un obiettivo, come può essere andare verso sud, verso il luogo dove nella nostra mente c’è più calore e luce: dove c’è più vita, dove anche i colori possono ricomparire attraverso un piumino non più solo grigio ma anche giallo. “La strada” sarà anche terribilmente miserabile e disperato, però infine si rivela comunque – ecco l’ennesimo contrasto – luminoso.
Non avevo mai letto nulla prima di Stefano Mancuso: accidenti, che narratore! Fin dal prologo, con il riferimento a “La vita è meravigliosa” di Frank Capra (che non ho visto ma vedrò di rimediare), è stato in grado di appassionarmi a questo lungo racconto-viaggio nel mondo della flora terrestre. La divulgazione è ad alti livelli, perché con uno stile chiaro e coinvolgente è stato in grado di comporre una storia per presentare ogni pianta inclusa nel libro, mettendo sempre questa al centro dell'attenzione, non sé stesso. Mi è sembrato di leggere una raccolta di favole, dove la morale a volte emerge con forza e in altre è più implicita, però comunque semina qualcosa dentro il lettore. Il volume sarebbe perfetto se avesse, oltre alle illustrazioni, anche delle foto delle piante.
La sezione che mi ha affascinato di più è la prima, intitolata “Pionieri, reduci e combattenti”, dove si parla anche degli “hibakujumoku”, ossia gli “alberi che hanno subito un'esplosione atomica”, reduci delle due bombe atomiche in Giappone alla fine della II Guerra Mondiale, eppure sono ancora lì, perché “la vita vince sempre”.
Ci sono poi le “fuggitive e conquistatrici”, quelle piante che sono arrivate in territori inesplorati ben prima degli esseri umani, migrando da posti lontanissimi.
“Come può una specie originaria della Sicilia non risentire del clima e dell'ambiente di Scozia e Irlanda? Il mistero non tarda ad essere scoperto. La piantina, nel suo procedere verso nord, ha imparato a ibridarsi con le specie locali. [...] Incrociandosi con le popolazioni locali, il Senecio dà vita ad una serie di incroci su cui la selezione naturale può agire. [...] Da questo momento in poi il Senecio squalidus non è più una pianta siciliana, ma anglo-sicula. Seguendo l'esempio di altre dinastie conquistatrici, si naturalizza britannica diventando parte integrante del nuovo ambiente. L'invasiva di ieri è diventata la nativa di oggi.”
E ci sono piante tenaci e resistenti i cui semi hanno aspettato decine di migliaia di anni per essere piantati e germinare, senza tuttavia ricevere la giusta attenzione.
“Fosse stato rigenerato un animale qualunque di 39.000 anni fa, ne avrebbero parlato per settimana tutti i media del mondo; il ritorno in vita di una piccola insignificante Silene stenophylla, invece, ha interessato pochi addetti ai lavori. Eppure, che meravigliose possibilità apre questa ricerca.”
E come non menzionare i tre “alberi solitari” (l'abete di Campbell Island, l'acacia del Ténéré e l'albero della vita del Bahrein), unici rimasti in ambienti anche teoricamente sfavorevoli come il deserto.
“L'incredibile viaggio delle piante” è un'ode all'intelligenza di queste creature che spesso sottovalutiamo, non rispettiamo abbastanza, e su cui stiamo impattando sensibilmente. Basti pensare al fatto, menzionato nel libro, che proprio l'abete di Campbell Island abbia registrato nel suo legno un picco di isotopi del carbonio negli ultimi mesi del 1965, dovuto probabilmente “ai test nucleari effettuati nell'emisfero settentrionale tra il 1950 e il 1960”. Ma Campbell Island è un'isola che si trova a 400 miglia a sud della Nuova Zelanda...
“Tutto mi interessava: i funghi microscopici e i licheni, la nutrizione delle piante e la fotosintesi, la molecola della clorofilla e l'anatomia delle piante... Mi pareva di non avere tempo per sviluppare tutto ciò che mi incuriosiva.” – Pag. 18
Nel centenario della nascita di Italo Calvino, ho letto questo libro incentrato sulla madre, Eva Mameli Calvino, con cenni anche sul resto della famiglia (il padre Mario e il fratello Floriano), e sono rimasta sbalordita dall'avanguardia, dalla tenacia e dal rigore di questa donna, che è stata la prima in Italia a ottenere la libera docenza in botanica nel 1915, a soli ventinove anni.
Mario Calvino, agronomo emigrato a Cuba, viene a conoscenza delle sue pubblicazioni e la rintraccia via lettera. I due si conoscono poi di persona, decidono di sposarsi e lei si trasferisce a Cuba, però senza mai mettere assolutamente da parte i suoi studi e le sue ricerche, affiancando il marito nella direzione del Dipartimento di botanica della Stazione sperimentale. Proprio a Cuba nasce Italo, come sappiamo, ma quanti invece sono a conoscenza di questo tale ambiente propizio e ricco di stimoli, sia per lui sia per il fratello, futuro ingegnere e geologo? Si direbbe proprio che i frutti non cadano troppo lontano dall'albero, e il libro di Elena Accati ci aiuta a comprenderlo. “La maga buona che coltiva gli iris” (cit. Italo Calvino) è probabilmente la stessa che ha passato al figlio “quello spirito scientifico e classificatorio presente nelle sue opere” (pag. 88).
Nessun imprevisto o sogno distrutto hanno fermato Eva Mameli e Italo Calvino dal continuare a credere nella propria passione scientifica, arrivando persino a trasformare la propria casa “in biblioteca, laboratorio, uffici, sala di riunione, mentre il giardino fu destinato alla sperimentazione, alle collezioni” (pag. 44). Oltre allo studio e alla volontà di diffondere e divulgare la floricoltura in Italia, la coppia si diede da fare anche in termini di impegno civile e sociale.
“Fiori in famiglia” rivela tutta la vita di Eva Mameli Calvino, una straordinaria scienziata meritevole di essere nota non solo da ragazze e ragazzi, principali destinatari di questa collana di Editoriale Scienza, bensì anche dagli adulti.
I MiseraLibri - Gruppo di Lettura SMART: Libri virali (17): Titoli di cui si è parlato durante l'incontro online di venerdì 13 marzo 2020.
Non presenti sull'OPAC:
- Suzuki Bokushi, "Racconti dal paese delle nevi"
- Nathan W. Pyle, "Strange planet. Uno strano mondo"
I MiseraLibri - Sondaggio per Febbraio 2020 (4): Provando un genere ancora inesplorato per il nostro GdL e promuovendo la RBBC Challenge 2020, seguiamo il seguente prompt: un libro che contiene la parola "cielo" nel titolo
RBBC Challenge 2019 (36): Titoli letti nel 2019, seguendo i prompt indicati nella sfida (scaffale non del tutto aggiornato, mancano alcuni titoli non presenti sull'OPAC)
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Re: Guerra e pace - Lev N. Tolstoj
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI” – LIBRO III
Terzo incontro del nostro Classico del 2023.
La visita alla mostra di “Guerra e pace” continua, anche se qualche lettrice è rimasta indietro alle sale precedenti, come la sottoscritta e un'altra partecipante. Altre hanno cercato di attirarle verso le nuove sale, come qualcuna che ride della presa in giro di Napoleone (ora giallo, grasso e con l’aspetto di un quarantenne scapolo) o che chiama Mosca una “città calviniana”, in quanto viene descritta da Tolstoj come mitica, opulenta irraggiungibile; una madre per i russi e un’affascinante donna orientale per tutti gli altri.
La suspence sulla sorte del principe Andrej potrebbe essere un buon motivo per riprendere la lettura: sarà morto davvero? Questo libro ha lasciato qualcuno con qualche dubbio, oltre che con la sorpresa di averlo “scavallato” senza così troppa fatica. Le numerose parti sulla guerra hanno richiesto più attenzione rispetto a quelle romanzate, però la vicenda è risultata comunque scorrevole. Secondo una partecipante, a costituire il valore aggiunto di “Guerra e pace” sono tutti gli intermezzi e le digressioni di Tolstoj (come la riflessione sul secondo paradosso di Zenone), mentre un'altra ne ha apprezzato l’ironia sottile e intelligente. C'è chi ha osservato come i generali e i comandanti formulino teorie e progettino i loro piani in tutti i dettagli, ma poi vengano smontati in un lampo per pura fatalità. Ed è proprio questa fatalità che si collega alla provvidenza manzoniana de “I promessi sposi”: il libero arbitrio non esiste; le decisioni delle persone sono connesse a tutto il corso della storia e sono predeterminate da un tempo interno.
Sarà davvero così? Non ci resta che avviarci verso l’ultima, risolutiva, sala…
Azami - Aki Shimazaki
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI”
Si percepisce proprio che “Azami” di Aki Shimazaki sia un “embrione di libro”.
“Azami” è il primo titolo di una pentalogia che, in ogni volume, affronta varie tematiche dal punto di vista di un personaggio diverso: dall’omosessualità e i tabù della società alle discriminazioni razziali, passando per la reputazione acquisita (e da mantenere) grazie alla propria professione e l’assenza di rapporti sessuali in una coppia sposata da tempo, considerato proprio in “Azami”. Scriviamo “considerato” e non “approfondito” perché alla maggior parte dei partecipanti il racconto lungo è sembrato incompiuto. Alcuni non sapevano che vi fosse un seguito e sono rimasti un po’ delusi. Per qualcuna è grevio, senza sale, mentre qualcun altro l’ha giudicato poco più di un harmony. Nonostante l’abbia trovato un po’ insipido, un partecipante ha comunque intravisto qualcosa di puro che l’ha portato a leggere anche i titoli successivi. Analogamente ha fatto un'altra partecipante, alla ricerca di qualche risposta in più su queste storie destinate e ricche di simboli (anch’essi, come i fiori, per lo più accennati). Secondo alcuni, “Azami” è “poco giapponese” perché abbastanza indefinito e trasponibile in altre realtà. Una di noi ha usato l’espressione “di maniera”, come se qualcuno avesse voluto scrivere alla maniera di un giapponese, senza esserlo, raggiungendo un risultato banale (la scrittrice ha origini nipponiche ma è canadese). Altri partecipanti invece hanno sentito sia tra i personaggi sia tra l’opera e i lettori quella distanza e asetticità che è tipica – o, almeno, lo sembra a noi occidentali – delle interazioni con persone giapponesi. C'è chi infatti ha provato frustrazione perché le sembrava di andare a cercare un sentimento che, alla fine, non ha trovato.
Secondo una partecipante, “Azami” è attuale in quanto descrive momenti di vita comuni a tante persone. Per qualcuna rappresenta una brevissima storia d’amore passionale, mentre per un'altra la passione non c’è: i rapporti sono troppo inquadrati, descritti con frasi troppo corte. Invece questo aspetto, assieme ad altri stilistici, hanno contribuito all’ammirazione per la scrittrice da parte di un partecipante, che vorrebbe essere trattato senza giudizio come lei tratta i suoi personaggi.
Questa storia, così veloce nei tempi e nelle relazioni, ad alcuni non ha lasciato nulla ed è un libro già dimenticato, fine a sé stesso. Altri hanno però comunque letto tutta la raccolta perché la curiosità di scoprire il perché *non* condividano qualcosa li porta ad approfondire, a scavare, a leggere ancora. E, allora, non possiamo dire che sia stata una lettura vana.
Tre ciotole - Michela Murgia
Per quanto le storie si intreccino tra loro attraverso alcuni personaggi che a volte agiscono come protagonisti e altre come comparse, personalmente non definirei questo libro un romanzo.
In generale, per me siamo lontani dai livelli di “Accabadora”, ma non so se il confronto valga perché quest'ultimo, appunto, È un romanzo.
Le tematiche comuni della maggior parte degli scritti in questa raccolta sono la malattia, la frustrazione e l'adattamento a eventi fuori dal nostro controllo, sotto varie forme e aspetti. Dei dodici racconti, mi hanno colpito particolarmente il primo, “Espressione intraducibile” (sicuramente il più personale per Michela Murgia), e l'ultimo, “Cambio di stagione” (un rito che Murgia ha già compiuto nel suo cinquantesimo compleanno).
“Quando anche l'ultimo invitato se ne era andato col suo bottino di stoffa, si sedette sotto un albero e pianse in silenzio tra le ombre dei rami sempre più distese, mentre il vento calante lasciava i vestiti rigidi sulle grucce, pelli di rettile, mute del serpente che era stata sua sorella, velenosa e calda, piena di spire.” – Pag. 136
Ho sorriso per il cambio di prospettiva voluto in “Stato di servizio”, dove Murgia si descrive come “pazza” dall'esterno, attraverso il punto di vista di una governante di un colonnello dell'esercito, richiamando un episodio realmente accaduto durante la pandemia.
Gli altri racconti mi hanno lasciato per lo più indifferente e alcuni li ho trovati poco credibili o discutibili.
Re: Guerra e pace - Lev N. Tolstoj
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI” – LIBRO II
Secondo incontro del nostro Classico del 2023.
L’esibizione continua, e Tolstoj mostra ancora una volta la sua grande capacità di orchestrare tantissimi personaggi. Ma non solo: il modo in cui presenta i vari temi dei diversi capitoli del Libro II invoglia i lettori ad approfondirli, anche se qualcuna non vi trova molto di innovativo rispetto ad “Anna Karenina”, anzi, gli stessi argomenti rischiano di rendere il romanzo un po’ ripetitivo e noioso. Qualcun altro si chiede se lo stile didascalico del libro sia specifico di Tolstoj o anche di altri scrittori russi. Per noi la seconda, però la caratterizzazione dei personaggi da parte di Tolstoj è una sua peculiarità che li rende davvero realistici e riconoscibili grazie a volte a un singolo dettaglio.
Nel Libro II comunque iniziano a prevalere i discorsi sociali, le parti più interessanti, e si intrecciano sempre più le relazioni tra i membri delle varie famiglie, al punto che una partecipante definisce il Libro II come un gran feilleuton, e menziona i quadri di Chagall per collegarsi alle storie d'amore volanti. Non abbiamo più dubbi che al centro del romanzo vi sia il personaggio di Pierre: un po’ smarrito e alla ricerca di sé stesso, un po’ sofferto e accidioso, ma pure un po’ deludente per via delle sue scelte sbagliate. Eppure Pierre, che non conosce le regole dei nobili eppure entra nel salotto di una famiglia imbalsamata, che si distingue sia da Andrej Bolkonskij sia da Nikolaj Rostov perché non è né un militarista né innamorato della figura dell’imperatore, incarna la ricerca dell’uomo nuovo e moderno. Ed è straordinario come, allo stesso tempo, Tolstoj sia in grado di approfondire così dettagliatamente anche le figure femminili di “Guerra e pace” e la donna dell’Ottocento in generale.
Curiosi di sapere come evolveranno ancora i protagonisti e se riusciranno in qualche maniera a riscattarsi, ci avviamo così verso il terzo libro: appuntamento al 22 settembre.
Re: L'incredibile viaggio delle piante - Stefano Mancuso
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI”
“L’incredibile viaggio delle piante” è un avventuroso saggio scritto da Stefano Mancuso, professore di arboricoltura generale e etologia vegetale all’Università di Firenze. Con le sue storie che sembrano quasi favole, con morali annesse, Mancuso ci ha portato in giro per il mondo a visitare regioni impensabili e ogni volta diverse. Una partecipante è stata riportata con la mente a Palermo, a visitare l’orto botanico più grande d’Italia.
Grazie al linguaggio e alle storie amichevoli, abbiamo ammirato la cortesia delle piante, che convivono con noi gentili. Mancuso ha trovato il modo di descriverle quasi fossero delle persone, rendendole in un certo senso ancora più vive. Per qualcuna, il libro è delizioso; per un altro, tutti i saggi dovrebbero essere così informativi e divertenti, sorprendendo anche lettori e lettrici forti che non avrebbero mai pensato che un testo di divulgazione scientifica potesse essere così avvincente. È che Stefano Mancuso scrive proprio bene; Italo Calvino (la cui madre è stata la prima donna in Italia a ottenere una cattedra universitaria in botanica! – https://opac.provincia.brescia.it/opac/detail/view/test:catalog:563190) probabilmente aggiungerebbe che il suo stile cura l’attenzione dell’orecchio di chi ascolta e non si concentra solo sulla voce di chi parla.
Eppure alcuni partecipanti hanno comunque avvertito tra le righe qualche sensazione negativa: frustrazione e forse anche rancore, da parte dell’autore, per il mancato prestigio attribuito dalla società al mondo vegetale, soprattutto se paragonato invece all’ammirazione e al rispetto mostrati per il mondo animale. A lungo andare, con uno stile troppo regnista, come l’ha definito un partecipante, la narrazione potrebbe diventare un po’ irritante.
Sicuramente tra gli intenti dell’autore c’era quello comunque di responsabilizzare il pubblico lettore su un patrimonio vitale da preservare, perché la distruzione delle piante porterebbe soltanto alla distruzione dell’umanità. L’impatto dell’uomo sulla natura è innegabile, non solo per i picchi di isotopi di carbonio rilevati in un’isola a 400 miglia a sud della Nuova Zelanda dopo i test nucleari nell’emisfero settentrionale negli anni Cinquanta. Siamo arrivati a un punto di non ritorno, dove c’è maggiore sensibilità sull’argomento ma all’atto pratico non si sta facendo abbastanza.
Ciò su cui siamo stati tutti d’accordo è che le illustrazioni dell’edizione cartacea siano meravigliose, ma si è sentita la mancanza delle fotografie degli alberi e dei fiori narrati. Un espediente dell’autore per invitarci ad approfondire? Potrebbe avere giustamente piantato qualche seme nella speranza di accrescere la pianta metaforica forse più importante di tutte: la nostra curiosità. A volte, ci vuole solo un fiore (https://www.youtube.com/watch?v=e1ScICZ8aXw).
Le città invisibili - Italo Calvino
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI”
La città e la condivisione.1. Fausta
Al crepuscolo di un venerdì di giugno, Fausta mi accoglie con la porta socchiusa. Un brusio di molteplici voci proviene dal foro, dove alcune sedie rosse sono disposte a cerchio e un gruppo di persone sta discutendo “Le città invisibili” di Italo Calvino.
Sembra esserci ordine nelle esposizioni anche se non c’è uniformità nelle opinioni: sono frammentate come i racconti stessi del libro, cosa che non ha convinto affatto alcune partecipanti. Non c’è nemmeno una linearità: da un lato, come osserva qualcuno, ciò potrebbe penalizzare l’opera, perché l’assenza di un filo conduttore annoia; dall’altro lato, forse sarebbe più corretto affermare che non c’è un’unica linea che colleghi il principio e la fine. La struttura combinatoria de “Le città invisibili” offre tante strade verso ambientazioni a volte surreali che insinuano il dubbio di apprezzare cosa si stia leggendo. In quest’opera, che un partecipante considera un esperimento legato al periodo degli anni Sessanta e al gruppo dell’Oulipo, la memoria viene messa a dura prova dalla miriade di particolari e dettagli specifici di ogni pagina, dove ogni parola genera suggestioni. “Le città invisibili” non andrebbe letto tutto d’un fiato in pochi giorni ma andrebbe degustato. Una prima lettura potrebbe non essere sufficiente a cogliere tutta la forza del libro.
In ogni città ognuno può trovare qualcosa di sé. E forse il segreto è proprio questo: a meno di non attribuire ai racconti un proprio significato personale, il libro rischia di rimanere sfumato, una mappa oscura. Le città sono come degli specchi: se uno riflette bene su ciò che è riflesso, rileva qualcosa. Per riconoscere gli elementi di realtà trasfigurati in un mondo che apparentemente è solo onirico, potrebbe servire fare dei disegni o usare altre chiavi di lettura come prestare attenzione al linguaggio dei gesti e ai segni.
“Le città invisibili” è un caleidoscopio, dove la forma delle città ha l’impronta e i segni dell’umanità. E così come sono le persone che fondano e fanno evolvere le città, in maniera analoga Italo Calvino richiede a ogni lettore di aggiungere il proprio tassello di legno per generare e completare la sua opera, che perciò non è mai compiuta e finita, bensì continua e continuerà a rinnovarsi e a essere immaginifica, suscitando la creazione di nuove immagini nei prossimi lettori. Un’opera in cui potranno sempre distinguersi “l'Olinda ventura e quelle che cresceranno in seguito”, in un’onda di andare e venire di oggetti e idee più moderni e ambientazioni più antiche.
La discussione giunge al termine e il mio sguardo scorre sugli scaffali. Di Fausta questi sono le vie, dove i suoi peculiari abitanti, volumi apparentemente inermi e silenziosi, sono in grado di scatenare reazioni sorprendenti nei viaggiatori che transitano di lì. Tra queste vi è sicuro la sensazione di sentirsi accomunati gli uni agli altri, mentre visitano a distanza di giorni, mesi o anni, le stesse pagine. Attraverso le sue guide, Fausta mostra ai suoi visitatori infinite possibilità; un punto di partenza verso l’altro al di fuori di sé che inevitabilmente riconduce al sé, mentre si cerca di scioglierne, da soli o in condivisione, i nodi che perseveranno a formarsi.
La sibilla - Silvia Ballestra
Conoscevo poco o nulla di Joyce Lussu, partigiana e scrittrice italiana del Novecento, colei che si interessava della politica “di base e dal basso, pratica, concreta, effettiva. La più difficile. Meno visibile, meno prestigiosa, e, aggiungiamo, non remunerata”. La politica più autentica, probabilmente.
Determinata, anticonformista, riflessiva ma pronta ad agire, e a trovare nella scrittura e nella traduzione “un mestiere insolito”, complementare a quello di suo marito, Emilio Lussu, anch'egli scrittore, militare e politico.
Da Joyce “si irradiano dei campi di energia e di attività, che hanno poi documentazione e testimonianza nella scrittura: la questione femminile, il diverso approccio alla storia, la ricerca di modelli alternativi di sviluppo, la memoria personale e familiare, l'antifascismo e le lotte di liberazione, l'ecologismo, l'antimilitarismo, la poesia come momento 'naturale' della vita di ognuno”, ha scritto Gigliola Sulis su di lei. Immortale come una sua poesia, “non potrà sparire dal mondo / anche dopo il gran tuffo nell'aldilà / continuerà a svolazzarvi attorno / travestita da lucciola o da farfalla”, con “la testa piena di grandi parole come: / dovere, lavoro, ideali, giustizia e libertà”.
Il voto medio della recensione è perché lo stile di scrittura e il ritmo della narrazione della biografia non mi hanno coinvolto molto. Però ringrazio molto l'autrice per aver raccontato la vita e la personalità di questa persona straordinaria.
Educazione europea - Romain Gary
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI”
“Educazione europea”, romanzo d’esordio nel 1956 di Romain Gary, fu inizialmente edito in Italia da Mondadori nel 1967 con il titolo “Formiche a Stalingrado”, e poi riproposto in una nuova versione da Neri Pozza nel 2006 (che suggeriamo caldamente).
È un libro che si aggiunge ai tanti altri titoli ormai classici che parlano di resistenza e, forse per questo, non ha sorpreso tanti partecipanti del gruppo di lettura, come chi si è un po’ annoiato o chi l’ha abbandonato perché stanco di affrontare tematiche già trattate. I personaggi sono poco caratterizzati e ciò, unito alla difficoltà dei nomi polacchi, non ha fatto molto empatizzare con loro. Eppure la storia è risultata abbastanza scorrevole, nonostante sia un po’ dispersiva e inframmezzata da dei racconti interni, considerati molto poetici, narrati dal personaggio più idealista, lo studente Dobrowski.
“Educazione europea” implicitamente indaga la questione di cosa sia Bene e cosa sia Male, lasciando al lettore la possibilità di dare una risposta definitiva. Vi sono due principali modi di resistere: difendendosi in battaglia oppure collaborando e accettando compromessi. Praticità contro idealismo (o anche utopia). Gary non si limita a questi due poli estremi e ne tratteggia diverse combinazioni, ponendone alcune in scontro diretto, come nel momento più alto del libro per una partecipante: il confronto tra un padre e un figlio che hanno preso posizioni opposte pur avendo lo stesso carattere. Vi sono poi anche aneddoti di abitudine alle cose che succedono in guerra, quasi delle contronarrazioni. La guerra sarebbe potuta finire prima se tutte le persone fossero intervenute combattendo, ha dichiarato un partecipante, perché aspettare che intervenga qualcuno per reagire a propria volta non è sufficiente. Il monito dello scrittore francese è che non esiste salvezza per chi non sceglie la parte del bene: chi cerca il compromesso prima o poi viene travolto. Scegliere è un dovere morale.
Come si fa a scegliere? Anzi, come si può crescere comprendendo quali principi considerare importanti, irrinunciabili, guide per le nostre decisioni? Decisioni tra l’altro da prendere avendo come obiettivi altri valori, altri diritti fondamentali. In guerra non perde chi non si fa prendere dalla barbarie o dall’egoismo di arricchirsi, e in questo la cultura aiuta: ce lo mostrano tutti i personaggi del libro nei momenti in cui cercano di estraniarsi dalla realtà. E vale la pena riprendere l’etimologia della parola “cultura”, il verbo latino “colĕre”, ossia “coltivare”: nei tempi di pace ognuno può formarsi una cultura attraverso i libri, l’arte, la musica o i dialoghi con altre persone, costruendosi degli strumenti, preparandosi ad affrontare ciò che sarà o a tentare di impedire che la storia si ripeta.
È forse questo il messaggio più importante di questo romanzo, che non aggiungerà molto a quanto già presente in letteratura, però con la valorizzazione della cultura contribuisce a ricordarci di essere patriottici e non nazionalisti, invitando tutti i popoli, attraverso una poesia, a essere fratelli. Non solo in Europa, ormai, bensì in tutto il mondo.
I figli del re - Alex Capus
La trama in sé non mi è dispiaciuta, specialmente la parte finale che approfondiva lo scoppio della Rivoluzione Francese, e anche l'idea del racconto dentro la storia. Lo stile dell'autore tuttavia non mi ha fatto entusiasmare, soprattutto per la quasi totale assenza di descrizioni nella storia del presente (erano quasi tutti dialoghi in forma di botta e risposta) e perché i personaggi non sono stati troppo approfonditi, secondo me, salvo Elisabeth, la sorella del re di Francia.
Alla fine sono rimasta un po' come Tina, la protagonista della storia del presente, perché volevo sapere qualcosa in più sul futuro di Marie e Jakob.
Il mio primo giorno in Giappone - Lafcadio Hearn
Del mio primo giorno in Giappone, quel 7 ottobre 2019, ricordo la sensazione costante di sentirmi disorientata da miriadi di insegne luminose, da ideogrammi per me senza significato, e dalle vie senza numeri civici ma con i nomi agli edifici, ovviamente non in ordine alfabetico. Tra la perdita dell'orientamento e il riconoscere solo le scritte in inglese, c'erano la meraviglia e lo stupore di quello che è davvero, per noi occidentali, un altro mondo. Seguendo il bianconiglio della ricerca, ero diventata “Alice in Japanland”.
Leggere questo breve saggio di Lafcadio Hearn mi ha riportato esattamente lì, a Chiyoda, a Kanda e ai primi templi che avevo visitato, timorosa di compiere azioni o di dire qualcosa di inappropriato, mentre iniziavo a conoscere ed esperire la cultura e le convenzioni nipponiche.
Rispetto a Hearn sono stata molto più avvantaggiata, potendo contare di più sul fatto che la gente conoscesse l'inglese, su una connessione a Internet e, soprattutto, su Google Maps (che addirittura nella capitale in metropolitana mi indicava in quale vagone mi sarebbe convenuto salire, in base ai cambi che avrei dovuto fare successivamente) e Google Traduttore (con cui, inquadrando quei caratteri per me indecifrabili, riuscivo ad avere almeno una vaga idea di cosa rappresentassero).
Però, in comune a Hearn, ho potuto notare anche io che “oggi, in queste strade esotiche, il vecchio e il nuovo si amalgano così bene che l'uno sembra dar manforte all'altro” (pag. 22); ho potuto riportare alla mente “lontanissimi ricordi di libri illustrati” (pag. 33); chiedere, sui buddisti, “perché battono le mani tre volte prima di pregare?” (pag. 37), e apprendere che nella preghiera l'anima si sveglia dal sogno di un mondo di infelicità.
Nelle parole di Lafcadio Hearn e nelle "semispeculazioni" di Ottavio Fatica in appendice mi sono specchiata, riscoprendo dettagli che avevo dimenticato o che non avevo più osservato: dovrò andare a riprendere il mio taccuino di viaggio.
L'universo letterario del probabile - Francesca Romana Capone
Qual è la probabilità che Edgar Allan Poe conoscesse le principali nozioni della stessa teoria della probabilità? Come il concetto del caos deterministico potrebbe avere condizionato il pensiero di Paul Valéry o di Carlo Emilio Gadda? Quale effetto potrebbe avere avuto il passaggio dalla meccanica classica a quella quantistica sulla scrittura di Robert Musil o Daniele Del Giudice?
Dopo l’invito alla meraviglia di Ian McEwan, ecco finalmente un altro saggio per approfondire il rapporto tra letteratura e scienza, in particolare quella branca della matematica che si occupa di studiare i problemi di definizione e misurazione dell’incertezza. A scrivere “L’universo letterario del probabile”, edito da Bollati Boringhieri, è la scrittrice Francesca Romana Capone, cultrice della materia in Letterature comparate presso l’Università di Torino, dove ha conseguito anche un dottorato di ricerca in culture classiche e moderne, in seguito a una laurea in storia dell’arte e un master in comunicazione della scienza.
Letteratura e probabilità propongono entrambe modelli per indagare la realtà, per “formalizzare un insieme di esperienze comuni” affondando in un “patrimonio di conoscenze collettive”. Qualcosa che proprio in probabilità potremmo chiamare universo: tutti i possibili eventi. Ma, definendo qualcosa come realizzabile, ecco che si va a escludere qualcos’altro: a ciò che non può avvenire si associa una probabilità pari a zero. Così è stata stuzzicata la fantasia di quegli autori che si sono sempre mossi in un “quadro deterministico”, come Arthur Conan Doyle guidato dal principio di deduzione “nello spazio che si apre tra impossibilità e improbabilità”.
Ciò che è sensatamente prevedibile potrebbe avere delle cause ben delineate, seguire un ordine. Nella probabilità il concetto di ordine è fondamentale, e così nel linguaggio e nella letteratura, non solo per distinguere casualità da causalità. Paul Valéry affermava che “è la capacità di immaginare un ordine possibile che ci rende umani poiché ci consente di orientarci nella realtà. Il calcolo delle probabilità […] è allora il capolavoro dell’intelletto umano.” Se la nostra vita è una probabilità, scrive Francesca Romana Capone, qual è la probabilità del mondo esterno?
La probabilità affascina i letterati, li invita a sfruttarla per farsi “strada nei meandri di un mondo dominato dal caos”. Uno scrittore è un “testimone privilegiato degli sviluppi della scienza […] e un veicolo del senso comune come voce pubblica di un pensiero più ampiamente condiviso”. Questa strada però ha anche un altro verso di percorrenza, e così Francesca Romana Capone parla di Bruno de Finetti, statistico che cerca “nel testo narrativo o teatrale le immagini utili a illustrare le proprie idee”, per esempio nelle opere di Luigi Pirandello. Persone di lettere e di scienza che cercano un punto di incontro, un’unione.
Quando, nel Novecento, si affermano la relatività einsteiniana e il principio di indeterminazione, ecco che autori come Robert Musil o Hermann Broch non si fanno trovare impreparati. Il protagonista de “L’uomo senza qualità” di Musil, matematico così come il personaggio de “L’incognita” di Broch, incarna “l’apertura al potenziale, la ricchezza di un’esistenza persa nelle infinite possibilità che si dischiudono in un mondo essenzialmente indeterministico”, dove si è persa la consequenzialità logica.
“L’universo letterario del probabile” ripercorre poi i decenni più recenti, evidenziando però quanto scritto da Daniele Del Giudice e Ian McEwan e affrontando le difficoltà nell’uso e nella comprensione della teoria della probabilità, come nel celebre problema di Monty Hall.
Secondo Francesca Romana Capone, nonostante la “intrinseca difficoltà di rappresentazione letteraria” del mondo indeterministico, la letteratura “ha la possibilità di mettere in scena i nodi filosofici e gnoseologici del dibattito scientifico […], di appropriarsi di idee, concetti o anche semplici parole, ma quando si confronta con le complesse caratteristiche del modello scientifico, ha la necessità di assumere un atteggiamento consapevole, pena l’inconsistenza dell’operazione di intersezione”.
I rischi che si corrono in questa divulgazione consapevole, sottolinea Francesca Romana Capone, sono da entrambe le parti. Da un lato, la letteratura deve stare attenta a non “limitarsi agli aspetti più spettacolari ed esotici dei risultati scientifici, tenendo lontano il grande pubblico e, anche, gli umanisti da una riflessione più profonda sulle problematiche sollevate dalle teorie, dalle scoperte, dalle nuove tecnologie”. Dall’altro, “i lettori non hanno più accesso alla conoscenza scientifica di prima mano e possono solo cogliere ciò che delle idee trapassa nel vivere quotidiano”, perciò la scienza non deve perdere il contatto con il mondo o porsi come evento indipendente.
R: La strada - Cormac McCarthy
RECENSIONE CORALE A CURA DE “I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI”
“La strada” di Cormac McCarthy si è meritato il premio onorario di “libro più miserabile” che abbiamo letto finora in questi sei anni. Qualcuna l’ha definito un romanzo funesto, portatore di grandi dolori. Secondo un'altra partecipante è siderale, ma non nell’essere privo di emozioni, quanto più nel senso di agghiacciante. È infatti un freddo che angoscia e si fa pesante e che in questa sua bruttura si rivela bello. E questo perché, nonostante le sue frasi secche e crude, “La strada” ci ha comunque dato tantissimi contenuti profondi su cui riflettere, affilati come stalattiti di ghiaccio.
“La strada” offre diverse contrapposizioni. La realtà a cui siamo abituati è distrutta, grigia e plumbea; i colori sono stati scordati ed emergono solo nei sogni dell’uomo. La relazione principale che viene presentata, quella tra l’uomo e il bambino, risulta straziante e allo stesso tempo amorevole. Qualcuno ha sottolineato come l’uomo rappresenti il passato, sulle cui spalle vi sono tutte le problematiche umane da espiare, mentre il bambino incarni il futuro e la coscienza: di sé, dell’uomo, del lettore, di tutti. In questo romanzo indefinito e per questo universale non vi sono nomi, né di città né di persone, e sono scarse anche le descrizioni fisiche. Fa eccezione un unico personaggio, il vecchio Ely: un profeta (forse Elia, che nella Bibbia era capace di far discendere “il fuoco dal cielo“?) o un alieno, una creatura soprannaturale “in viaggio da sempre”? Questo “sempre” ci aiuta a guardare dall’alto tutto, ci riporta all’essenza data dai quattro elementi principali: aria, acqua, terra e soprattutto fuoco. Facendoci pensare a irreversibili conseguenze negative dei fatti dei nostri giorni, inizialmente l’ambientazione post-apocalittica colpisce, ma in verità è un pretesto: ciò che importa sono solo le scelte e azioni che si trovano a dover decidere e compiere l’uomo e il bambino. Citando Kant (“Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”), un partecipante ha affermato che McCarthy vuole proprio parlare della legge morale.
Diversi episodi nel libro potrebbero essere presi a esempio, però il più eclatante è quello del ladro, verso la fine. Avendo subito un torto, l’uomo applica la legge del taglione, mostrando una cattiveria non necessaria. Ma come si fa a non diventare brutali in un mondo distrutto? Tali istinti sono insiti nell’essere umano, e riemergono in scenari del genere più bestiali e contrastanti che mai, tra tenerezza e crudeltà, tra protezione e vendetta. Da dove nasce il fatto che il bambino vuole salvare il ladro? Deriva dal padre e dai principi che gli ha trasmesso, principi che si discostano poi dalle sue azioni, provocando i silenzi del bambino. “La strada” è un romanzo sulla paternità, sul percorso di accompagnare i figli lungo la (loro) strada e sul prepararli, sul prepararsi, al distacco inevitabile.
Il “portare il fuoco” è il simbolo principale. Cosa voleva dire McCarthy con quest’espressione? Il fuoco ispira un senso di protezione, un mezzo con cui difendersi; è ciò che ci ha permesso di avere calore e luce, fin da quando nell’antichità l’essere umano ha imparato a domarlo, differenziandosi sempre di più dagli animali. Per questo potrebbe rappresentare la nostra natura umana, da custodire e tramandare. Il fuoco indica la speranza, la cui scintilla sta nella riproduzione e nella discendenza, mentre i ceppi per mantenerlo acceso sono gli insegnamenti tramandati e infissi nella memoria. All’inizio della storia l’uomo dice di non dimenticare suo padre, e alla fine il bambino dice di non dimenticare lui. “La strada” è generazionale e ciclico, come la storia. Perché, come diceva Maurice Blanchot, “L’uomo è l'indistruttibile che può essere infinitamente distrutto”. Ciò che lo fa andare avanti è a volte solo una piccola scintilla, un’idea, un obiettivo, come può essere andare verso sud, verso il luogo dove nella nostra mente c’è più calore e luce: dove c’è più vita, dove anche i colori possono ricomparire attraverso un piumino non più solo grigio ma anche giallo. “La strada” sarà anche terribilmente miserabile e disperato, però infine si rivela comunque – ecco l’ennesimo contrasto – luminoso.
Re: L'incredibile viaggio delle piante - Stefano Mancuso
Grazie mille del consiglio, Clara!
Re: L'incredibile viaggio delle piante - Stefano Mancuso
Non avevo mai letto nulla prima di Stefano Mancuso: accidenti, che narratore! Fin dal prologo, con il riferimento a “La vita è meravigliosa” di Frank Capra (che non ho visto ma vedrò di rimediare), è stato in grado di appassionarmi a questo lungo racconto-viaggio nel mondo della flora terrestre. La divulgazione è ad alti livelli, perché con uno stile chiaro e coinvolgente è stato in grado di comporre una storia per presentare ogni pianta inclusa nel libro, mettendo sempre questa al centro dell'attenzione, non sé stesso. Mi è sembrato di leggere una raccolta di favole, dove la morale a volte emerge con forza e in altre è più implicita, però comunque semina qualcosa dentro il lettore. Il volume sarebbe perfetto se avesse, oltre alle illustrazioni, anche delle foto delle piante.
La sezione che mi ha affascinato di più è la prima, intitolata “Pionieri, reduci e combattenti”, dove si parla anche degli “hibakujumoku”, ossia gli “alberi che hanno subito un'esplosione atomica”, reduci delle due bombe atomiche in Giappone alla fine della II Guerra Mondiale, eppure sono ancora lì, perché “la vita vince sempre”.
Ci sono poi le “fuggitive e conquistatrici”, quelle piante che sono arrivate in territori inesplorati ben prima degli esseri umani, migrando da posti lontanissimi.
“Come può una specie originaria della Sicilia non risentire del clima e dell'ambiente di Scozia e Irlanda? Il mistero non tarda ad essere scoperto. La piantina, nel suo procedere verso nord, ha imparato a ibridarsi con le specie locali. [...] Incrociandosi con le popolazioni locali, il Senecio dà vita ad una serie di incroci su cui la selezione naturale può agire. [...] Da questo momento in poi il Senecio squalidus non è più una pianta siciliana, ma anglo-sicula. Seguendo l'esempio di altre dinastie conquistatrici, si naturalizza britannica diventando parte integrante del nuovo ambiente. L'invasiva di ieri è diventata la nativa di oggi.”
E ci sono piante tenaci e resistenti i cui semi hanno aspettato decine di migliaia di anni per essere piantati e germinare, senza tuttavia ricevere la giusta attenzione.
“Fosse stato rigenerato un animale qualunque di 39.000 anni fa, ne avrebbero parlato per settimana tutti i media del mondo; il ritorno in vita di una piccola insignificante Silene stenophylla, invece, ha interessato pochi addetti ai lavori. Eppure, che meravigliose possibilità apre questa ricerca.”
E come non menzionare i tre “alberi solitari” (l'abete di Campbell Island, l'acacia del Ténéré e l'albero della vita del Bahrein), unici rimasti in ambienti anche teoricamente sfavorevoli come il deserto.
“L'incredibile viaggio delle piante” è un'ode all'intelligenza di queste creature che spesso sottovalutiamo, non rispettiamo abbastanza, e su cui stiamo impattando sensibilmente. Basti pensare al fatto, menzionato nel libro, che proprio l'abete di Campbell Island abbia registrato nel suo legno un picco di isotopi del carbonio negli ultimi mesi del 1965, dovuto probabilmente “ai test nucleari effettuati nell'emisfero settentrionale tra il 1950 e il 1960”. Ma Campbell Island è un'isola che si trova a 400 miglia a sud della Nuova Zelanda...
Fiori in famiglia - Elena Accati
“Tutto mi interessava: i funghi microscopici e i licheni, la nutrizione delle piante e la fotosintesi, la molecola della clorofilla e l'anatomia delle piante... Mi pareva di non avere tempo per sviluppare tutto ciò che mi incuriosiva.” – Pag. 18
Nel centenario della nascita di Italo Calvino, ho letto questo libro incentrato sulla madre, Eva Mameli Calvino, con cenni anche sul resto della famiglia (il padre Mario e il fratello Floriano), e sono rimasta sbalordita dall'avanguardia, dalla tenacia e dal rigore di questa donna, che è stata la prima in Italia a ottenere la libera docenza in botanica nel 1915, a soli ventinove anni.
Mario Calvino, agronomo emigrato a Cuba, viene a conoscenza delle sue pubblicazioni e la rintraccia via lettera. I due si conoscono poi di persona, decidono di sposarsi e lei si trasferisce a Cuba, però senza mai mettere assolutamente da parte i suoi studi e le sue ricerche, affiancando il marito nella direzione del Dipartimento di botanica della Stazione sperimentale. Proprio a Cuba nasce Italo, come sappiamo, ma quanti invece sono a conoscenza di questo tale ambiente propizio e ricco di stimoli, sia per lui sia per il fratello, futuro ingegnere e geologo? Si direbbe proprio che i frutti non cadano troppo lontano dall'albero, e il libro di Elena Accati ci aiuta a comprenderlo. “La maga buona che coltiva gli iris” (cit. Italo Calvino) è probabilmente la stessa che ha passato al figlio “quello spirito scientifico e classificatorio presente nelle sue opere” (pag. 88).
Nessun imprevisto o sogno distrutto hanno fermato Eva Mameli e Italo Calvino dal continuare a credere nella propria passione scientifica, arrivando persino a trasformare la propria casa “in biblioteca, laboratorio, uffici, sala di riunione, mentre il giardino fu destinato alla sperimentazione, alle collezioni” (pag. 44). Oltre allo studio e alla volontà di diffondere e divulgare la floricoltura in Italia, la coppia si diede da fare anche in termini di impegno civile e sociale.
“Fiori in famiglia” rivela tutta la vita di Eva Mameli Calvino, una straordinaria scienziata meritevole di essere nota non solo da ragazze e ragazzi, principali destinatari di questa collana di Editoriale Scienza, bensì anche dagli adulti.