Da qualche tempo nella città di B. è in circolo uno strano morbo: le persone utilizzano un numero di parole sempre più esiguo, rinunciando alla complessità e al gusto per le sfumature. Ma cosa succede se il linguaggio s’impoverisce? Quanta ricchezza si perde per ogni parola dimenticata? È il dilemma al centro di “Babele fu un dono”, romanzo di Claudio Cuccia (Scholé, 2023). Una lingua più misera rispecchia una società più grigia, dove lentamente ogni essere umano si autocondanna a un quieto torpore.
Forse, però, l’omologazione che parte dal linguaggio e permea ogni aspetto della vita non è un destino ineluttabile. Ne è convinto Pino, semiologo e “maestro di scienze inutili”. Sarà lui a convincere l’amico Andrea, ingegnere e “studioso di gas”, a unire le forze e cambiare le cose. Per risvegliare gli abitanti di B. dal loro letargo lessical-esistenziale, servirà una mistura di fisica e chimica, insieme alla lucida follia di un gruppo di giovani rivoluzionari.
Claudio Cuccia, già responsabile dell’Unità di Terapia Intensiva Cardiologica degli Spedali Civili di Brescia, è direttore del Dipartimento Cardiovascolare della Fondazione Poliambulanza di Brescia. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni che spaziano dalla narrativa alla saggistica. Dai suoi libri è tratto “Cardio Drama, spettacolo semiserio su un organo quasi perfetto”, opera teatrale a cura di CHRONOS 3. In “Babele fu un dono” infonde la sua passione per la letteratura, riflettendo con ironia sul nostro presente e su quanto il lessico quotidiano possa plasmarlo. Tra citazioni colte e rimandi all’immaginario pop, il romanzo ci ricorda che esiste un modo “antico” di guardare al “nuovo”, perché tecnologia e umanesimo sono facce della stessa medaglia e le parole, soprattutto le più desuete, sono i primi mattoni con cui costruire un futuro migliore.
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